Quando adoperate termini quali “integrazione”, “tolleranza”, “inclusività”, “ospitalità”, “uguaglianza”, o espressioni del tipo “sentirsi a casa”, molto probabilmente, o meglio, quasi sicuramente, lo fate per sintetizzare concetti altamente positivi. In realtà, non è proprio così. Questi termini hanno un’indole discriminatoria. Che coniugata politicamente è in grado di strozzare vite.
E se non ce ne accorgiamo è perché fanno parte di una narrazione edulcorata del mondo, a cui apparteniamo noi tutti, che lavora, giorno dopo giorno, a rassicurarci di appartenere alla parte di mondo più civilizzata e progredita e democratica che esista. Educandoci a una visione unilaterale della realtà.
Se fate attenzione e andate in profondità scoprirete che questi termini riproducono i rapporti di potere che regolamentano lo stare al mondo degli esseri umani, in cui c’è chi detta legge e chi deve attenersi a quella legge, se proprio vuole stare al mondo – normalizzato/normativizzato.
Perché sì, siamo tutti stranieri su questo pianeta ma c’è chi è più straniero degli altri.
Nell’integrazione, c’è chi integra e chi è integrato. Nella tolleranza, c’è chi tollera e chi è tollerato. Nell’inclusività, c’è chi include e chi è incluso. Nell’ospitalità c’è chi ospita e chi è ospitato. Nell’uguaglianza, c’è chi è uguale, e basta. Chi non è uguale non è legale, non è “a norma”. Chi si sente a casa, chi si identifica in uno spazio fisico e immaginario ben preciso, ad esempio l’italiano che si sente a casa tra i confini nazionali italiani, farà molta difficoltà ad accettare la presenza del diverso, di chi non-è-come lui, in quel suo – in senso strettamente possessivo – spazio. «Avere una patria significa dunque appartenere ma anche erigere confini, escludere gli altri. Ogni forma di identificazione con un gruppo istituisce la categoria sociale dell’altro». Se ci identifichiamo in un gruppo ben preciso, al di fuori di questo grande “noi” resteranno “loro”, gli altri, gli esclusi. Che se pur integrati conserveranno, a vita, la loro estraneità. Perché l’integrazione è concessa, non è automatica. «La vera ospitalità è possibile solo quando non ci si sente a casa propria in nessun posto».
In altre parole il mondo non è uno spazio a disposizione di tutti. Non hanno tutti gli stessi diritti, le stesse possibilità per il semplice fatto di essere “umani”.
Gli attraversatori di confini, quelli che il potere definisce anonimamente “migranti”, e non persone, disumanizzandoli per poterli sacrificare; quelli per cui migrare significa infrangere la legge, sono tra le vittime sacrificali di un mondo soffocato da muri, in cui c’è chi ha tantissimo e chi non ha nulla. E dove i muri servono proprio a impedire che questo divario si rimargini.
Fateci caso, chi definirebbe mai un occidentale che varca i confini del suo paese per andare a studiare o a lavorare in un paese diverso da quello in cui è nato, “migrante”. Un occidentale è una persona, o meglio un cittadino; un mediorientale è un migrante, o meglio un clandestino. Chi non ha la cittadinanza non è tutelabile, chi non è tutelabile è sacrificabile. C’è una parte di mondo che ha una pletora di possibilità per vivere al meglio la sua vita e un’altra a cui viene normativamente impedito di vivere.
Io sono confine di Shahram Khosravi «parla di confini e di coloro che li violano». Di coloro che li incarnano. Perché chi varca i confini, senza avere il diritto di farlo, quei confini li porta impressi sul suo corpo per sempre. E se riesce ad arrivare a destinazione e a non essere rimandato indietro, non diventerà comunque, mai, veramente, parte del mondo che gli sta concedendo di “integrarsi”, che lo sta “tollerando”, che lo sta “includendo”, che lo sta “ospitando”. Continuerà a essere un diverso, un corpo estraneo, “potenzialmente sacrificabile”. Perché chi concede ha sempre il potere di ritirare la sua concessione. E chi detiene il potere rende vulnerabile a vita lo stare di coloro su cui si esercita.
Perché fino a quando esisteranno rapporti di potere e confini, non saremo mai tutti esseri umani, ma solo cittadini e clandestini. Shahram Khosravi, oltre a essere l’antropologo, è qui, anche, l’informatore che ha vissuto in prima persona l’esperienza della migrazione clandestina. Questo libro è un cambio di prospettiva, è guardare alla migrazione dal punto di vista non del “vincitore”, come di consueto, ma per una volta tanto, del “vinto”.